La scienza ha individuato la “ricetta” alla base dell’incredibile varietà delle razze canine. Una scoperta che può contribuire a far luce sulla complessità delle malattie genetiche umane. E’ proprio la gran varietà, la sconcertante differenza di taglie, forme di orecchie, lunghezze di nasi, ciò che rende gli appassionati di cani irriducibili paladini di una razza rispetto ad altre. Attraverso un’evoluzione artificiale frutto sia di ragioni pratiche sia di capriccio, il miglior amico dell’uomo è diventato l’animale più diversificato del pianeta; un’impresa sbalorditiva se si considera che la maggior parte delle attuali 350-400 razze canine esiste al massimo da un paio di secoli. Gli allevatori hanno modificato il processo evolutivo combinando i tratti più disparati attraverso l’accoppiamento di cani con caratteristiche diverse e poi selezionando come riproduttori i discendenti degli accoppiamenti che presentavano i tratti desiderati in forma più marcata. Ad esempio, per creare un cane in grado di stanare i tassi, pare che fra il Settecento e l’Ottocento alcuni cacciatori tedeschi abbiano fatto accoppiare dei segugi (probabilmente bassett, cani di origine francese) con dei terrier: è nata così una nuova variazione sul tema del cane con arti brevi e tronco affusolato per cacciare la preda nella tana: il bassotto, o Dachshund, che in tedesco vuol dire appunto “cane da tasso”. La pelle elastica costituiva un meccanismo di difesa, permettendo al cane di sopportare morsi di denti aguzzi senza grossi danni, mentre la coda lunga e robusta serviva al cacciatore per tirare fuori il cane infilato in una tana con il tasso fra le fauci. Gli allevatori non pensavano certo che creando questi nuovi cani intervenivano anche sui geni che determinano l’anatomia canina. Per la scienza era ovvio che la diversità morfologica dei cani celasse un’equivalente ricchezza di variabilità genetica. Ma il recente moltiplicarsi di studi sul genoma canino ha portato a una conclusione sorprendente e del tutto opposta: la ricca varietà di forme, colori e taglie canine deriva perlopiù da cambiamenti in un numero esiguo di regioni geniche. La differenza fra il corpo piccolo del bassotto e quello massiccio del rottweiler è determinata da una mutazione nella sequenza di un singolo gene; così come un solo altro gene determina la differenza fra le zampe tozze del bassotto (la cosiddetta condrodisplasia) e quelle slanciate del levriero. Lo stesso si può dire per tutte le razze e per la maggior parte dei tratti fisici che le caratterizzano. Per il progetto di ricerca CanMap, che nasce da una collaborazione fra Cornell University, Ucla e National Institutes of Health , sono stati campionati i Dna di oltre 900 cani di 80 razze diverse oltre a quelli di canidi selvatici come lupi e coyote. I ricercatori del progetto hanno scoperto che taglia, lunghezza del pelo, tipo di mantello, forma del tartufo, posizione delle orecchie, colore del mantello e gli altri tratti che definiscono l’aspetto di una razza sono determinati da appena una cinquantina di mutazioni genetiche. La differenza fra orecchie pendenti ed erette nasce da una singola regione genica del cromosoma canino 10, o Cfa10 (dove Cfa sta per Canis familiaris), mentre le tipiche pliche della pelle di uno shar pei sono riconducibili a un’altra regione, Has2. E la cresta sul dorso del Rhodesian ridgeback? Quella deriva da una mutazione nel Cfa18. Bastano poche mutazioni genetiche perché il bassotto diventi un dobermann, quanto meno nell’aspetto, e alcune altre trasformano il dobermann in un dalmata. «Ciò che emerge dagli studi è che nei cani la diversità deriva da un corredo di strumenti genetici piuttosto ristretto», dice il biologo Robert Wayne. Quando la stampa parla “del” gene dei capelli rossi o del tumore alla mammella restituisce l’impressione – erronea – che la gran parte dei caratteri sia governata da un solo gene o da un gruppo esiguo di essi. In realtà il numero ridotto di geni che determina le caratteristiche morfologiche del cane è una condizione praticamente unica in natura, dove in genere un tratto fisico o una malattia sono frutto di una complessa interazione di molti geni, ognuno dei quali fornisce il proprio contributo. L’altezza di un uomo, ad esempio, dipende dall’interazione di circa 200 regioni geniche. Ma perché, allora, i cani sono così diversi fra loro? La risposta, dicono gli studiosi, sta nella loro particolare storia evolutiva. Canis lupus familiaris è stato il primo animale domesticato dall’uomo, con un processo iniziato fra i 20 mila e i 15 mila anni fa, molto probabilmente quando i lupi grigi iniziarono a cercare cibo attorno agli insediamenti umani. Vi sono opinioni discordi sul ruolo più o meno attivo svolto dall’uomo nella fase successiva, ma alla fine, quando abbiamo cominciato a usare i cani per la caccia, la guardia e la compagnia, il rapporto è diventato di mutuo vantaggio. Al riparo dalle difficoltà di uno stato naturale che favoriva la sopravvivenza del più adatto, quei cani semidomestici riuscirono a vivere, e bene, anche quando erano portatori di mutazioni genetiche deleterie (come le zampe tozze) che non ne avrebbero consentito la sopravvivenza in popolazioni selvatiche di ridotte dimensioni numeriche. Alcuni millenni dopo, quando iniziarono a creare le prime razze moderne, gli allevatori attinsero proprio a quella materia prima così diversificata. Per ottenere il cane desiderato se­lezionarono i caratteri ricavati da una serie di incroci, o tentarono di replicare in fretta le mutazioni spontanee di una certa popolazione. Inoltre, visto che più una determinata discendenza di cani si distingueva dalle altre più era probabile che venisse riconosciuta come nuova razza, gli allevatori favorirono le nuove caratteristiche più esasperate. La selezione tendeva a privilegiare geni singoli a grande impatto, la cui azione genera un tratto marcato nell’aspetto morfologico della razza, il che consentì ad alcuni caratteri di consolidarsi più in fretta di quanto non avrebbero mai consentito geni a impatto minore. Questa scoperta ha importanti ripercussioni, come quelle sullo studio delle malattie genetiche nell’uomo. Sono già state mappate oltre un centinaio di mutazioni che determinano una predisposizione a malattie genetiche canine, e molte di queste hanno un corrispettivo nell’uomo. Ma siccome i cani sono stati “isolati”, geneticamente parlando, in razze che si sono evolute a partire da un esiguo gruppo di individui originali, ciascuna razza presenta un numero molto più ridotto di geni alterati – spesso uno o due al massimo – responsabili della patologia. Ad esempio, i ricercatori della Cornell che studiano la PRA, una malattia degenerativa dell’occhio dei cani comune anche all’uomo (in cui prende il nome di retinite pigmentosa), hanno scoperto che può essere causata da 20 geni canini diversi; ma il fatto che negli schnauzer piuttosto che nel barboncino ne sia responsabile un gene diverso ha aperto la strada per la ricerca negli esseri umani. Intanto, grazie a uno studio recente di un tipo raro di epilessia nei bassotti è stata identificata quella che sembra una particolare firma genetica in grado di fare luce sulla patologia negli esseri umani. Insomma, gli allevatori vittoriani, selezionando cani solo in base al loro capriccio, hanno finito per creare popolazioni geneticamente isolate, senza sapere che in futuro sarebbero risultate utili alla ricerca scientifica. Ciò è particolarmente vero nel campo dei tumori, alcuni dei quali insorgono in certe razze canine anche nel 60 per cento degli individui, mentre colpiscono solo un essere umano su 10 mila. «Noi siamo gli esperti di genetica», dice la genetista Elaine Ostrander. «Ma il lavoro sul campo lo hanno fatto tutto gli allevatori». Una categoria di caratteristiche che finora è sfuggita alle analisi del CanMap è quella del comportamento, a cui a tutt’oggi è stato possibile ricondurre un’unica mutazione genetica: si tratta della versione canina del gene del disturbo ossessivo-compulsivo nell’uomo, quello che può indurre ad esempio un pinscher a succhiarsi ossessivamente il pelo fino a sanguinare. Caratteri come la fedeltà o l’istinto a radunare il branco hanno un evidente fondamento genetico, ma possono essere anche influenzati da fattori come l’alimentazione o la presenza di bambini in casa, il che rende difficile quantificarli ai fini di uno studio. Eppure, dice il genetista Carlos Bustamante, «rispetto ad altri animali, nei cani abbiamo le stesse possibilità, se non di più, di capirne il comportamento». Del resto, sottolinea lo studioso, al mondo ci sono milioni di cinofili che non vedono l’ora di offrire le proprie esperienze per aiutare la ricerca. (30 gennaio 2012)